VECCHIO DELLA MONTAGNAAbbacu.html

R I 21 0; R I 21 1; R I 21 2 (Vecchio detto della Montagna); R I 21 3 (Vecchio); R I 21 6 (Vecchio); R I 21 8 (Vecchio); R I 21 11 (Vecchio); R I 21 12 (Vecchio); R I 21 13 (Vecchio).

Viel de la montagne, V(i)el, Vielz, Vieus F; Sene(x) de la montagna, Senex L; Senex de Montanis, Senex P; Vechio dala Montagna, Vechio dela Montagna, Vechio V; Vechio della montagnia, Vechio VA; Vechio dela Montagna, Vechio, Ve(g)io VB; Veglus de Montanea, Veglus Z.

BIBLIOGRAFIA – Cardona 1975, pp. 358, 539, 669, 753-754; Daftary 1994, pp. 88-125; Daftary 2007, pp. 1-33, 301-402; EI2, III, pp. 275-276; EI2, IV, 206-215; EI2, VIII, 456-458; EIr, XIV, pp. 178-195; Lewis 1976, § VIII, X, XI; Olschki 1957, pp. 357-376; Pelliot 1959-1973, pp. 785-787 n. 290.

Con il nome di Vecchio della Montagna Marco Polo si riferisce al leader di un’importante comunità dell’Islām sciita, quella degli ismailiti nizariti, diffusa nei secoli XII e XIII in Persia e in Siria. Le fonti occidentali dell’epoca riecheggiano elementi della propaganda ostile dei teologi e degli storici sunniti, ma creano un’immagine per molti aspetti originale. Innanzi tutto l’appellativo “Vecchio della Montagna” non trova riscontro in nessuna delle fonti arabe e persiane oggi note – ma occorre tener conto del fatto che quelle ismailite sono andate perdute. Potrebbe trattarsi dell’adattamento dell’ar. šayḫ al-ğabal, originatosi nel ramo siriano del gruppo, e poi forse passato a quello persiano – in arabo, infatti, šayḫ vale “anziano” e “guida spirituale”, ma l’equivalente fārsī pir ha solo il secondo senso. Il Vecchio della Montagna menzionato da tanti cronisti e viaggiatori europei è Rāšid al-Dīn Sinān (m. 1192 o 1193), alla guida per un trentennio della comunità ismailita siriana. È probabile che Marco Polo abbia raccolto notizie in proposito durante il suo breve soggiorno in Terra Santa (1271); tuttavia egli riferisce il titolo a uno dei leaders persiani, ‘Alā’ al-Dīn Muḥammad III (m. 1255) (Aloadin). Non è però questi ad essere sconfitto dal sovrano mongolo Hülegü nel 1256, ma il suo successore Rukn al-Dīn Ḫuršāh (m. 1257), con il quale si chiude una fase cruciale nella storia della comunità. La regione a più forte insediamento ismailita in Persia era quella del Daylamān, a S. del Caspio, e la roccaforte il cui assedio viene raccontato nel Milione è Alamūt. Il toponimo Mulehet – che si ritrova in forma simile in Guglielmo di Rubruck e Odorico di Pordenone, e già in Beniamino da Tudela – va riferito appunto a questa regione ed è da ricondurre all’ar. mulḥid “eretico” – e in effetti gli ismailiti sono spesso designati con l’epiteto dispregiativo di malāḥida (plurale di mulḥid) nelle fonti sunnite. Quanto alle altre due regioni ad alta densità ismailita menzionate nel testo, quella siriana («alle parti di Damasco») comprendeva una serie di castelli sulla catena montuosa dell’Antilibano e godeva di una certa autonomia; mentre quella designata come Curdistan è forse un malinteso riferimento al Quhistān, nella Persia NO, sede di varie fortezze ismailite – nell’itinerario poliano la digressione sul Vecchio della Montagna segue infatti la provincia di Timocaim, toponimo in cui si fondono i nomi di due città del Quhistān. Tutti i tratti della leggenda del Vecchio della Montagna sono documentati nelle fonti occidentali precedenti o coeve (Guglielmo di Tiro, Jacopo da Vitry, Jean de Joinville, etc.), ma la loro combinazione nel racconto poliano è di grande suggestione e avrà un forte impatto nelle scritture di viaggio successive. Degli ismailiti si riconosce l’appartenenza all’Islām, seppure in forma deviante; dalla teologia islamica si estrapola, distorcendola come era comune all’epoca, l’idea del giardino del paradiso come luogo di piaceri esclusivamente materiali. La dedizione dei membri del gruppo ai voleri del leader, per il quale sono disposti a compiere azioni pericolosissime, è spiegata come una dipendenza creata ad arte, attraverso un elaborato processo di addestramento e assuefazione. In tutto questo sembra giocare un ruolo secondario la somministrazione di sostanze stupefacenti (una bevanda, più esplicitamente oppio a bere nella redazione toscana TA 40 12), cui sarebbe da ricollegare il nome di assassini se, come pare probabile, questo deriva dall’ar. ḥašīšiyyīn, plurale di ḥašīšī “colui che è dedito all’uso di Cannabis”. Il termine è impiegato per riferirsi ingiuriosamente agli ismailiti in qualche testo arabo del XIII secolo, per lo più in riferimento al ramo siriano del gruppo; non vi è però alcun riferimento all’uso di narcotici e sembra prevalere il senso traslato di “gentaglia”, “teppaglia”. È però possibile che la leggenda nera degli ismailiti, elaborata in ambienti sunniti, si fosse arricchita di elementi che non hanno trovato posto nella trattatistica ufficiale, ma che circolavano a livello orale e sono così giunti, variamente deformati, nell’Oriente latino e di lì poi in Europa. È certo comunque che Marco Polo, come altri osservatori occidentali, è all’oscuro delle reali valenze religiose e politiche dell’ismailismo e si limita a coglierne, e amplificarne, alcuni aspetti tutto sommato non centrali: così, il ricorso alla pratica dell’omicidio politico, che fece vittime illustri nel campo dell’aristocrazia franca d’Oltremare e colpì tanto l’immaginazione dei contemporanei da diffondere la voce assassino “sicario” nelle lingue dell’Occidente medievale. Se varie componenti del racconto poliano trovano verosimilmente la loro genesi nel contesto siro-palestinese, di altre è difficile individuare l’origine, ma pare sicura la circolazione in ambito persiano: per es., nell’excursus sui Mu-la-hi contenuto nel rapporto del generale cinese Ch’ang Te in missione diplomatica presso Hülegü (1259), si menzionano le mirabili opere di canalizzazione, l’indottrinamento dei giovani adepti, la loro cieca obbedienza al capo, etc.

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